Le elezioni politiche di questo anno sono state preannunciate da una lunga campagna elettorale che si è giocata tutta sui temi della sicurezza, artificiosamente legato alla gestione dei flussi migratori. Questo è stato voluto da tutti i principali partiti che hanno deciso di puntare tutto sulla capacità di mostrare una faccia dura su questi temi e su proposte di misure pseudo-welfaristiche che o sono vaghe promesse o sono pure e semplici elemosine di massa. Non è un caso che, a giochi chiusi, Confindustria abbia dato la propria benedizione a quelle forze politiche che si sono presentate in qualche modo come antisistema: sono in grado di garantire la continuità con le politiche di attacco alle condizioni di vita della classe lavoratrice. Non ce ne stupiamo: chi partecipa al gioco della classe dominante, le elezioni, diventa, in un modo o nell’altro e anche a prescindere dalla propria volontà, parte della stessa.
Molti osservatori hanno sottolineato come il tema del lavoro sia stato grandemente assente dal dibattito elettorale. Evocato solo in promesse di abolire la legge Fornero, promesse, appunto, e di realizzare quella specie di sussidio di disoccupazione, in cambio dell’obbligo di accettare qualsiasi lavoro, spacciato per reddito di cittadinanza. Per il resto neanche una parola su come l’espulsione dal mercato del lavoro di fasce sempre più alte di lavoratori, o il confinamento a lavori saltuari e mal pagati, sia un dato strutturale. Neanche una parola sulla diminuzione dell’orario di lavoro e sulla creazione di un salario minimo. Il M5S, la forza che si spaccia più delle altre come antisistema e che è riuscita ad aggregare voti di transfughi dalla sinistra e di disoccupati e operai, propone smaccatamente misure di appoggio alle piccole medie imprese, ovvero le aziende che più di tutte fanno registrare il mancato rispetto delle conquiste sindacali, e non dei lavoratori a cui riserva solo l’elemosina di ciò che viene venduto per reddito di cittadinanza.
Non è un caso che nelle regioni dove la disoccupazione è alta, il meridione, che vede in Sicilia, Puglia e Campania una disoccupazione tra il 19,5% e il 22%, ma anche alcune zone del nord ovest, chi ha votato lo ha fatto per chi proponeva uno straccio di misure pseudo welfaristiche. Lo stesso per quanto riguarda le fasce di età più colpite da disoccupazione o sottoccupazione: il 35% dei nuovi aventi diritti al voto non si sono recati alle urne, quelli che hanno votato, e non si sono semplicemente recati ad annullare la scheda, han votato per lo più il partito di Di Maio, Grillo e soci.
Alta l’astensione tra gli oramai ex elettori del PD: sempre secondo l’Ipsos almeno un quinto di chi votò PD nel 2013 ha deciso di stare a casa.
Come abbiamo rilevato, il dato politico che emerge con forza dalla tornata elettorale è l’astensionismo, quasi al 28%, che ha attraversato in lungo e in largo la nostra penisola. Queste elezioni hanno registrato, secondo i maggiori istituti di statistica, l’affluenza più bassa della storia delle elezioni politiche nel nostro paese. Un altro elemento interessante è che la percentuale astensionista alla camera è stata più alta di quella del senato a conferma del fatto che i giovani vanno sempre meno a votare. Senza considerare poi il consistente rifiuto elettorale passato per il così detto “non voto passivo” espresso da schede nulle e bianche.
Non saremo certamente noi a farci influenzare in questi giorni dalle fanfare giornalistiche e dai riflessi televisivi sul “successone” del movimento pentastellato. Come abbiamo già scritto il movimento grillino “post ideologico”, né di destra né di sinistra, tutto delega e tutta ditta – Casaleggio & C. – sarà il classico gigante dai piedi di argilla, probabilmente destinato a sgretolarsi alla prima occasione come hanno dimostrato le vicende dei vari governi locali gestiti dai Cinque Stelle stessi.
Dopo queste elezioni, lo spazio degli anarchici può assumere una nuova dimensione se si mettono in campo strategie che puntino a trasformare l’astensionismo sociale a bassa motivazione ideologica in astensionismo militante ad alta intensità politica.
Vale a dire costruire percorsi che intercettino il bisogno di cambiamento reale espresso dai ceti popolari e dal mondo giovanile con questo astensionismo sempre più radicato, segnale di una profonda rottura con il sistema dei partiti e con i meccanismi istituzionali.
Percorsi d’azione diretta che facciano a meno delle elezioni, dei parlamenti, dei partiti, rifiutando qualsiasi cooptazione istituzionale e al contempo siano in grado di rigenerare delle pratiche che, partendo dal basso, possano consolidare nuovi spazi di resistenza in grado di contrastare l’autoritarismo crescente.
Tali spazi sociali, dal più piccolo al più grande, dovranno essere fondati sulla partecipazione diretta, sull’assemblearismo come unico momento decisionale, sulla pratica autogestionaria e sul valore della solidarietà di classe. Ma dovranno ispirarsi per essere vissuti e creduti al socialismo libertario e umanitario degli anarchici.
FAI Reggiana